Riforma della comunicazione pubblica, la Legge n. 151 per uno Stato digitale amico dei cittadini

di Sergio Talamo

Dirigente Formez PA – giornalista e docente, co-fondatore di PAsocial e già Coordinatore Gruppo di lavoro su Riforma della comunicazione pubblica (Legge n. 151) e Social media policy nazionale


Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (“Pnrr”) colloca l’efficienza della Pubblica Amministrazione nel cuore di tutti i processi. Per il ministro Brunetta “il 70 per cento del successo del Piano dipende dalla riforma della P.A.”. Sono in gioco 11,5 miliardi, per un percorso che fa leva su tre pilastri: a) reclutamento-ringiovanimento, con i concorsi velocizzati dal digitale e il portale Inpa realizzato con LinkedIn; b) piano di formazione da 2 miliardi “Ri-formare la PA. Persone qualificate per qualificare il Paese”, che al centro ha le competenze digitali e come partner il sistema universitario; c) rilancio dei contratti pubblici, legati anche ai percorsi formativi – l’Aran è già molto avanti sul comparto Funzioni Centrali e sta avviando Sanità, Funzioni Locali e Istruzione; d) customer satisfaction, che è fra gli asset del progetto del Formez “Linea Amica Digitale”; e) semplificazioni, anch’esse innestate sulla svolta digitale: l’art. 38 del dl semplificazioni recita che “la transizione al digitale della PA garantisce lo sviluppo di servizi veloci ed efficaci. Tutte le comunicazioni tra P.A. e cittadini e imprese dovranno essere fatte con strumenti digitali”.

Manca all’appello la comunicazione. Nel lontanissimo 2000, la Legge 150 aveva avviato il riconoscimento e la stabilizzazione di funzioni già da anni esercitate nelle Amministrazioni, i rapporti con la stampa e le relazioni con i cittadini. Lo aveva però fatto con alcuni gravi difetti di fabbrica, fra cui spiccava la “separazione in casa” fra gli uffici stampa e gli Urp, visti come recinti professionali chiusi e affidati il primo ai giornalisti il secondo ai comunicatori. La comunicazione, in realtà, non è una somma di attività slegate e autosufficienti ma la strategia centrale che gestisce quella che in termini aziendali si chiama “brand reputation”. In concreto, impatto sugli utenti, dialogo interattivo e rilevazione del feedback finalizzato al miglioramento dei servizi. Senza la necessaria visione d’insieme, la comunicazione si indebolisce, perché si riduce all’adempimento di azioni che restano parziali ed episodiche. È esattamente ciò che accadde dopo la fiammata dei primi anni 2000. La Legge 150 entrò nel cono d’ombra della marginalità e della disapplicazione, favorita anche dal fallimento dei tentativi delle organizzazioni dei giornalisti di sedersi ai tavoli contrattuali e dei comunicatori di andare oltre la convegnistica e la proliferazione di corsi universitari. Tutto ciò già prima che irrompessero le tecnologie digitali, che hanno cambiato il mondo – il lavoro, l’istruzione, il commercio, le relazioni –, ma prima di tutto hanno trasformato la comunicazione. A cominciare dalle professioni. Anche solo nello scrivere un post su un profilo social, come si può più distinguere fra informazione e comunicazione? E, soprattutto, come si può ignorare che di quel post non conta tanto lo stile ma l’effetto che produce sui destinatari, le sue reazioni, la sua soddisfazione? Nessuno ci fece caso, e si preferì continuare nella difesa di orticelli peraltro sempre più ridotti. Il risultato è stato un decennio di riformismo amministrativo in cui grandi innovazioni come la trasparenza, la performance, le consultazioni pubbliche e la partecipazione, per finire con i vari switch off tesi alla cittadinanza digitale, si sono compiuti senza tener conto dei giornalisti pubblici e dei comunicatori. Come se investissimo sull’edilizia senza ingegneri, sulla medicina con i laureati in lettere, sulla migliore gestione dei fondi europei affidando tutto ai funzionari in esubero negli altri settori. La centralità del cittadino nelle politiche pubbliche è stata più declamata che vissuta.

Oggi, anche per la spinta di Renato Brunetta tornato a Palazzo Vidoni, è chiaro a tutti che la Pubblica Amministrazione non esiste per sé stessa ma per gli utenti, e a giudicare le sue prestazioni sono proprio i suoi destinatari. Non è più accettabile, per fare qualche esempio, che a gestire la trasparenza totale, opportunità storica per l’interazione con il cittadino, siano per lo più gli uffici legali o i vertici amministrativi titolari della prevenzione della corruzione. O che a occuparsi di digitalizzazione siano gli informatici. O che i social, strumenti potenzialmente formidabili di comunicazione a due vie e in tempo reale, siano ancora un oggetto non ben identificato, di cui si occupano funzionari animati dalla passione che svolgono il ruolo di pionieri della nuova comunicazione. 

La Legge 151 non è quindi una fuga in avanti, ma il frutto di una consapevolezza che mira a recuperare il molto tempo perduto. Occorre una riforma che adegui le norme e l’organizzazione al nuovo mondo digitale. Con una spinta di partenza prima tutto etica: restituire all’Amministrazione la reputazione, ai cittadini la fiducia nello Stato e ai dipendenti l’orgoglio della loro missione. Il gruppo di lavoro che ho coordinato al Ministero per la Pubblica Amministrazione nel 2020 e fino al febbraio 21, incardinato nel IV piano “Open Government Italia”, ha visto unite nell’obiettivo della riforma associazioni e istituzioni come Ordine dei giornalisti e Federazione della Stampa, PA Social, Compubblica e Ferpi, Anci, Conferenza regioni, Università a Associazioni civiche. Fra sensibilità e interessi in campo a volte diversi, la sintonia di fondo ha portato risultati concreti: un Documento di indirizzo e una Relazione di accompagnamento che vertono su alcuni punti-chiave: una “communication room” che sancisca l’unificazione organizzativa di giornalismo e comunicazione pubblica, la gestione della “trasparenza-accountability” separata dall’anticorruzione, un forte investimento sul digitale e sulle relative professionalità. E poi spinta alla partecipazione civica, lotta al burocratese, attenzione alla “citizen satisfaction”, formazione continua, monitoraggio sistematico delle azioni comunicative ed altro ancora.

Ad oggi la confusione regna sovrana, al punto che non è raro leggere bandi che associano alle professioni comunicative i requisiti più bizzarri e disomogenei. L’assenza di una legge organica e moderna è una palla piede per tutta l’Amministrazione italiana, che nei prossimi 4 anni deve gestire la scommessa del “Pnrr”. Per fortuna le condizioni di “volontariato istituzionale” non hanno impedito l’esplosione di fortunate avventure fondate su social interattivi, chat e chatbot, app, stories e podcast, accompagnate da una grafica creativa e in tempo reale che, nei tempi della pandemia, ha costruito l’indispensabile ponte fra istituzioni e cittadini. 

La riforma digitale della comunicazione è una navicella che va dalla parte giusta del mare. È una legge che vuole dare finalmente allo Stato un volto amico, perché solo la fiducia permanente e confermata dalla cultura del servizio può produrre uno sviluppo che dura, e che non è né un rimbalzo né un’illusione. Oltre venti anni dopo, insomma, è ora di entrare nel nuovo secolo.